Paolo Barberis (Nana Bianca) è una delle voci più autorevoli e seguite nel variegato e complesso universo digitale: fondatore ancora giovanissimo di Dada, azienda in anticipo di decenni per la visione generale della rete, si distingue per l’immensa competenza nel settore, che lo porta ad essere fondatore di SuperEva, poi consulente del Ministero per lo sviluppo economico e quindi dell’Innovazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ci rivolgiamo a lui per capire un po’ meglio la chiacchieratissima Immuni, l’App che dovrebbe aiutare a proteggerci dal Covid19.
Si parla molto della scarsa “trasparenza” di Immuni; per esempio recentemente in tv Nadia Urbinati, docente ad Harvard, ha paventato accesamente i pericoli legati all’uso di tale app scelta dal governo italiano, specie in relazione ai dati sensibili: sanitari, bancari, e via dicendo
In realtà con Immuni l’utente tratta anonimamente, attraverso un codice, i dati relativi a tutte le persone con cui è venuto in contatto, la distanza a cui si è trovato e il tempo di esposizione, e così via: tali dati vengono quindi riscontrati con quelli che, nel frattempo, raccolgono coloro che stanno eseguendo i tamponi, in particolare con quelli che dopo aver fatto il tampone sono risultati positivi. È a questo punto che sul dispositivo arrivano i dati relativi ai punti rossi presenti sull’applicazione del telefono: l’App a questo punto confronta i codici anonimi ricevuti con le persone con le quali si è verificato un contatto durante la giornata, evidenziando “eventuali” soggetti ritenuti positivi. L’incrocio di questi dati (ripetiamo: dati criptati) non consente all’autorità centrale di identificare i soggetti per nome cognome; di fatto l’incrocio consente solo all’applicazione di avvertire del pericolo si sia entrati in contatto con soggetti a rischio contagio, ed attivare quindi le opportune norme a tutela.
Riepilogando: a seguito di accertamenti sanitari la tua identità è nota, dunque se tu sei risultato positivo il tuo codice criptato sarà distribuito in rete agli utenti che avranno installato l’applicazione.
Appunto: nel momento in cui vai a farti delle analisi cedi molto più dati di quelli di cui stiamo ragionando qui… i timori forse rappresentano soltanto un altro degli incubi della quarantena…
Google ed Apple, sul tema della criptazione dei dati sensibili a livello di sistema operativo, sono estremamente attenti; stanno addirittura lavorando affinché il dato della positività sia elaborato ed esposto solo a livello locale, sul dispositivo dell’utente, quindi senza necessità che raggiunga il server di gestione…
L’ulteriore crittazione a livello di sistema operativo necessita l’aggiornamento dei software installati sui dispositivi, o viene distribuita in automatico? In parole povere, l’aggiornamento comporta utilizzo di terminali di ultima generazione, o può essere ‘caricata’ anche su telefoni non troppo “giovani”?
Purtroppo la necessità dell’aggiornamento software rappresenta un serio scoglio per la diffusione estesa di questo tipo di tecnologia; un aspetto che indubbiamente rende più difficile raggiungere quella percentuale di installazioni (il 60%) ritenuta indispensabile affinché esse rappresentino un aiuto attendibile per il tracciamento; e di conseguenza ai fini del contenimento della diffusione dei contagi. Del resto l’obbligatorietà dell’istallazione della App è stata esclusa principalmente per ragioni di natura costituzionale, ma anche e soprattutto sia per le oggettive ragioni di costo sia per le conoscenze tecniche, ancora insufficienti, relative alla sua complessiva gestione.
La questione è stata dibattuta con un pathos eccessivo, simile a quello suscitato intorno all’obbligatorietà dei vaccini, nel senso che nella discussione si è cercato di considerare le ragioni del dovere sociale assieme alle ragioni relative alle scelte di libertà personale.
Tornando alla tipologia dei dati forniti dall’utente va considerato che il rischio è assolutamente inferiore a quello cui ci esponiamo quando andiamo, che so, a registrarci su siti di commercio elettronico o su piattaforme di gioco on-line; gli stessi social richiedono una serie di informazioni che noi forniamo “volontariamente” pena l’esclusione dagli stessi.
Torniamo alla natura dei dispositivi: se come avverti occorrono telefoni più o meno di ultima generazione per poter installare in sicurezza l’App, è lecito pensare che la generazione di utenti più anziani probabilmente ne resterà esclusa: paradossalmente proprio la fascia più a rischio, che più dovrebbe giovarsene.
Ovvio che ogni ostacolo circa le possibilità di installazione è stato oggetto di innumerevoli riflessioni. Risposte facilmente praticabili e “magiche” non esistono; in ogni modo si sta tentando di operare in modo di ampliare il più possibile la base. Andrebbe però sempre tenuto presente che il vero nemico è la diffusione del contagio e che questa soluzione tecnologica rappresenta uno degli elementi importanti per il suo contenimento. Personalmente avrei piacere di vedere quotidianamente campagne informative relative a molti altri elementi, per esempio come scegliere la mascherina adatta, le indicazioni sulle norme igieniche fondamentali, la chiarezza sulle procedure di intervento in caso di contagio eccetera.
Altro punto basilare ritengo sia effettuare un maggior numero di tamponi e naturalmente continuare fino a quando non si arrivi a concrete soluzioni: trovare un vaccino efficace o una prassi medica che agevoli la gestione sanitaria del problema. Tornando all’applicazione, penso che - in considerazione della situazione e la non remota possibilità di dover affrontare a lungo questa pandemia - dobbiamo scommettere sull’aiuto che la tecnologia può fornirci, senza chiusure di principio.
Consideriamo ancora la diffidenza quasi superstiziosa scatenata sui social contro l’uso dell’App, a cosa pensi che sia dovuta?
Abbiamo già accennato al problema del “digital divide”; fra le sue caratteristiche, oltre alla mancata capacità di utilizzo, è probabile che vada aggiunta la diffidenza verso tecnologie non conosciute e per questo ritenute di utilizzo “sospetto”.
Per estensione lo stesso problema, di disagio e sospetto, si è presentato nell’ambito della didattica digitale a distanza, laddove appare evidente che una mancata formazione ad hoc impedisce o rallenta l’uso di tecnologie mature, con evidenti costi economici e culturali.
Ritieni quindi che questa potrebbe essere l’occasione buona per ripensare forme di lavoro a distanza e quindi che sia giunto il momento di considerare la formazione su questi temi come parte integrante di una trasformazione. Che non è più soltanto una possibilità, ma una necessità per l’economia oltre che per la salute pubblica? È pronta la macchina informativa governativa a gestire questa situazione?
Va considerato che l’inesperienza diffusa sull’argomento mette a dura prova l’attendibilità o meno delle scelte fatte sulle qualità delle persone che oggi si trovano a gestire la pandemia.
Come si colloca in questo quadro l’azione futura della vostra azienda Nana Bianca?
La situazione attuale di blocco, anche parziale da Fase 2, rappresenta naturalmente un problema che ci preoccupa soprattutto per la fragilità strutturale della piccola e media industria e per i problemi legati all’occupazione. Si respira un’aria di depressione che andrebbe contrastata al più presto con atti chiari e profonda determinazione. Tra le tante iniziative e cose che si son dette, mi ha fatto sorridere un’affermazione curiosa riguardo all’attività delle banche e all’erogazione del credito: se ci si appella auspicando un “gesto d’amore” da parte delle banche, forse viene da pensare che i nostri politici non abbiano mai chiesto un prestito… (risata)
Ritieni che un’azione seria e massiva sulla formazione digitale, e mi viene in mente il maestro Manzi e il suo Non è mai troppo tardi perché anche qui si tratta di una forma di analfabetismo, possa rappresentare un terreno aziendale fertile e significativo per il valore culturale e per i vantaggi pratici che ne potrebbero derivare, a cominciare dalla diminuzione della diffidenza dovuta al “digital divide”?
Fin dai tempi della mia esperienza di consigliere per l’Innovazione alla Presidenza del Consiglio ci eravamo posti il problema; addirittura si tentò di immaginarne una distribuzione anche attraverso flash inseriti nelle fiction: una serie di “pillole” formative da infilare nei palinsesti televisivi. Discorso simile andrebbe fatto a proposito della scuola, evitando soluzioni fantasiose e investendo invece su una piattaforma digitale robusta e centralizzata, che potrebbe generare dati per infinite analisi in tempo reale (risultati didattici, abbandono scolastico, ecc.). In pochi mesi faremmo un salto di 10anni… Ci vorrebbe gente pratica. (intervista raccolta da Fabio Norcini)
Paolo Barberis, Firenze 28 aprile 2020