Ho trascorso, meglio, sto trascorrendo i giorni di quarantena qui in casa, nella mia di Roma in cima al Gianicolo, gli oggetti intorno a farmi compagnia, a guardarmi dalle mensole, dalla libreria, testimonianza della memoria, dei traslochi, della storia che ho raccolto.
In certi momenti ripenso che le persone a me più care – papà, mamma e zii, Gioconda e Franco, già morti - abbiano avuto un’immensa fortuna ad andarsene prima che arrivasse questa pandemia, un pensiero vicino ai versi di Bertolt Brecht riferiti alla guerra e allo sterminio.
Altri giorni provo invece una sensazione di felicità assoluta e di pienezza, guardando la primavera accostarsi, quasi bussare alle finestre, ripensando così al tempo in cui, adolescente, felice dell’acquisto di un paio di pantaloni “Fiorucci” di velluto verde a coste sottili, appena presi nel negozio alla moda della mia città di allora, li avrei sfoggiati la domenica mattina successiva davanti al mare di Mondello, nell’ingenua convinzione che le ragazze, quasi fossi fosforescente, si sarebbero accorte di me, così chiamandomi dalla spiaggia: “Fulvio, amore, che piacere vederti, che fai stasera?”
Ora, come crocerossina di “Addio alle armi” di Hemingway, quando scendo ad acquistare il pane in via dei Quattro Venti, e mi imbatto nella fila, al momento di andare via, saluto con un “Ci rivediamo presto all’obitorio”, e loro sorridono alla fantasia dello scrittore.
Fulvio Abbate, Roma 13 aprile 2020