Fuori dal ritratto… è una vita normale?

La casa.

La mia è a due piani; sotto, gli studi miei e di Carlo, mio marito architetto. Sopra, la cucina, il soggiorno, le tre camere. Una, la matrimoniale. La piccola, centrale, per stirare, stendere i panni durante l’inverno, e camera degli ospiti quando viene mia figlia con la famiglia. L’ultima, la camera di mio figlio Nic che vive con noi, che si occupa di musica, che in quella sua camera ci lavora, anche.

Le giornate si susseguono lente, feroce è il tempo dello spavento, la paura ci tormenta, vogliamo reagire e non sappiamo come.

Carlo tira fuori l’idea: Se dessimo tutto il sotto a Nic, per dormire, per lavorare, e noi ci trasferissimo di sopra?

L’idea mi piace, mi emoziona, mi incanta il pensiero di cambiare in questo tempo perché anche questo tempo possa cambiare. L’idea entusiasma Nic.

Facciamolo.

Il nostro mondo capovolto. Quintali di libri spostati, e mobili, oggetti, e fogli, i miei fogli ovunque… e molto di più - così attenti alle cose, come se proteggere le nostre cose significasse proteggere le persone amate. Ecco il nostro mondo rivoltato, esattamente come il virus ha sovvertito il nostro rassicurante pianeta. Ci accompagniamo così al virus, rivoluzionando per intero ciò che vicino a noi era ordine, sicurezza, tranquillità, per giorni, settimane, mesi.

Il sonno.

Allungo il braccio durante la notte per sentire se Carlo mi è vicino. Se davvero c’è e mi dorme accanto… anche lui compie lo stesso gesto, segno di tranquilla routine che sconfina nell’usanza di normalità. È la ricerca di quest’ultima che forse ci spinge e ci preme, dove norma, familiarità, costume, che per anni ci hanno seguito, sembrano non esistere più, nascosti oramai dalle nuove regole che ci vengono imposte e raccomandate, a cui ci pieghiamo volentieri in attesa di una nuova tradizione che vagheggiamo anche durante il sonno.

Intimità.

Carlo mi solleva i capelli cresciuti e mi scopre il collo, mi bacia lì, sotto alla nuca.

Io gli vado dietro, appoggio la fronte alla sua schiena, annuso il suo profumo dopo la doccia, la pelle ancora calda.

A volte ci teniamo per mano, lontani quanto le nostre braccia, come per dare luogo a un girotondo ampio, ci sorridiamo.

Dopo giorni prendiamo il coraggio per un vero bacio, labbra contro labbra.

Il cibo.

Curo i piatti che andranno in tavola. Curo il nutrimento e anche Carlo lo fa quando stabiliamo che è il suo turno in cucina. Insieme, abbiamo imparato a programmare i nostri menù buoni, vivaci, ci doniamo un’ottima alimentazione, forse come non è mai stata prima. Stiliamo la lista delle cibarie che acquistiamo ogni dieci giorni circa, con code disciplinate ai supermarket, e tentiamo di utilizzare gli avanzi per non buttare nulla, ma in modo che siano appetibili e ottimi.

Alcuni tra i miei piatti preferiti:

Petto di pollo al limone, dev’essere molto aspro il sughetto, da far socchiudere lo sguardo sul mondo.

Torta al cioccolato con cacao più che amaro, che solletica la lingua e vai a cercarlo sulle labbra.

Insalata con foglie verdi, pomodoro, tonno, formaggio, uovo barzotto irrorata di salsa tartara, tanto colore.

Vongole del Pacifico ottimamente surgelate come antipasto e filetti di orata in padella, da socchiudere gli occhi nel succhiarle.

Penne del pittore, artistiche, rosse e bianche di gorgonzola, il contrasto che desideriamo.

Pappa al pomodoro con il pane raffermo, calda, gentile.

Straccetti di pollo al curry, con troppo curry.

Wurstel bolliti e patate fritte, a mo’ di gita in Germania.

Polpettone di tonno, ricordo di quando mangiavamo in spiaggia, vicino al mare.

Mozzarella in carrozza, veramente croccante, quasi bruciacchiata, ma che non si badi all’intenzione.

Ciambellone con quello che c’è in frigo, che non va giù a nessuno.

I risotti di Carlo: ai funghi, allo zafferano, di pesce; io sul divano, se tocca a lui, a contare quelle foglie che stanno nascendo sugli alberi, appena fuori dalla finestra.

Vita sociale.

Allora ci siamo, dico. È l’ora giusta, vero?

Una videochiamata/aperitivo con gli amici più stretti, al lunedì.

Seduti vicini a un lato del tavolo, Carlo e io, chiamiamo per primi Ale e Paolo e aggiungiamo Lucia e Giovanni. Di fronte a noi sfoggiamo i bicchieri con il prosecco e le noccioline, le mandorle croccanti, le olive, poco prima di cena. Ci scambiamo i saluti girando la testa, perché le nostre inquadrature risultano al contrario; ci raccontiamo i giorni, soprattutto noi due, alle prese con gli sconvolgimenti della casa, per non parlare del giardino, siamo concentrati a farlo ricco, radioso. Progettiamo a volte di vedere tutti e sei lo stesso film per parlarne insieme durante il nostro nuovo incontro, ma non accade mai, come se non avessimo il tempo o lo spazio giusto per accogliere una proiezione comune. Sopra, io sono visibilmente truccata, ben pettinata, ben vestita. Sotto, in pigiama e pantofole. Ridiamo, scherzando su quello che accade volendo esorcizzare i pensieri più inquietanti, ci diciamo prudenti e coraggiosi e questo ci comunica serenità. Più tardi, a collegamento chiuso, io non sono felice. Carlo mi rimprovera quella certa tristezza, io mi perdono: mi è mancato troppo allungare una mano per toccare quei volti con un’autentica carezza.

La televisione.

Ascoltiamo le notizie mangiando. Spesso parlo a voce alta, con il boccone in bocca, il tono elevato che copra decisamente i comunicati detti e ripetuti, i più difficili da mandare giù. Mi piace ridere insieme ai miei di qualche piccolo avvenimento accaduto quel giorno, di un sogno avuto, di un disegno che vorrei realizzare, distogliendo l’attenzione verso uno schermo immaginario, felice.

Dopo cena, Carlo e io seduti sul divano, cerchiamo uno spettacolo che possa distrarci lasciandoci immaginare paesaggi lontani, o anche spaventandoci con più forza di quanto possa fare la realtà.

Nove maggio duemilaventi.

È questo il giorno memorabile in cui sono uscita dalla quarantena per una passeggiata per la strada, alle ore dieci e quaranta. Non lo facevo dal nove marzo duemilaventi, esattamente da due mesi.

La città è una sorta di lago silenzioso e distante che abbraccia le vie dove la gente rara fluttua, tutto è così diverso da come io ricordavo la vita, il movimento, l’approccio con l’altro; c’è in giro qualcosa di veramente nuovo con cui dovrò fare i conti reinventando il mio modo consueto, e che mi muove a pronunciare, solo alle dieci e cinquantadue: Voglio tornare a casa.

Sara Cerri, Firenze 11 maggio 2020