C'è stato un tempo in cui la forza di un editore di giornali si misurava anche nella caccia al direttorone fuori dai propri confini aziendali. Più era prestigiosa la firma, più cresceva anche la reputazione e il potere di chi gli pagava lo stipendione. E il giro delle poltrone era vorticoso con reali migrazioni di copie. Nessuno, tra i grandi nomi, restava disoccupato a lungo. Da molti anni, ben di più di quelli che ci separano dal crack del 2008 che ha aggravato, ma solo sul piano finanziario, l'inevitabile crisi storica della carta stampata provocata dall'avvento del digitale, gli editori hanno tirato solo a risparmiare e tagliare, tagliare, risparmiare e scaricare sulla spesa pubblica costi di gestione attraverso prepensionamenti di massa. Sì, è sempre quel giochino ormai entrato anche nella memoria popolare come identificazione della Filosofiat, la pratica aziendale della Fiat dell'avv. Agnelli e del fido mastino Romiti: privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Ben ereditato e vieppiù applicato dal nipote John Elkann che, con la sede fiscale in Olanda, qui in Italia debutta come primo padrone della stampa italiana dopo l'acquisizione del GruppoGedi di De Benedetti e la conseguente fusione tra La Stampa e Repubblica, con tutte le testate locali al seguito. E debutta senza farsi uno scrupolo al mondo di far fuori come primo atto il direttore Verdelli, ma soprattutto il suo stipendio. Operazione, peraltro, legittimissima perché il rapporto di lavoro è puramente fiduciario, e a niente valgono i fiumi di lacrime versati per la repentina cacciata, inariditisi nel giro di 48 ore con il fondo dello stesso Eugenio
Scalfari che ha legittimato il nuovo corso padronale.
Basta consultare un qualsiasi organo di settore per leggere il quotidiano bollettino di tagli e licenziamenti nel mondo della stampa. Agli editori frega il giusto della tanto invocata libertà di stampa, a cui possono credere solo i buontemponi della Città Ideale, interessa solo avere, come sempre, strumenti di pressione, clientela e lobbismo per poter sviluppare i business da cui traggono i profitti principali. Niente di nuovo, niente di sorprendente.
A me sorprende di più la categoria a cui, sia pure ormai da insignificante pensionato, anch'io appartengo: i giornalisti. Non c'è un cenno di reazione degno di questo nome, che non sia la solita, stantia, invocazione dell'art. 21 della Costituzione, sempre buona per consolatorie passerelle di circostanza. Si subisce tutto all'insegna della residua garanzia (sempre più a spese della collettività) di sopravvivenza della specie, una sorta di immunità di gregge come si direbbe in questo tempo drammatico. Mentre si tollerano privilegi e marchette soprattutto dai più in vista della squadra. Non c'è un minimo accenno di discussione su quelle che sono diventate ormai condizioni non più aggirabili di una nuova identità professionale a fronte del crescente impegno del denaro pubblico a sostegno di non meglio identificati imprenditori privati che dovrebbero assumersi per primi il rischio d'impresa. E che invece presentano il conto allo Stato: l'ultimo appoggiato sul piattino della FIEG (la federazione degli editori di giornali) e depositato sulla scrivania del governo, già fin troppo ingombra di questi tempi, segnala la cifra di 400 milioni di euro.
Ovviamente a fondo perduto, come va di moda già da molto prima del coronavirus nell'arrembante e creativo capitalismo della comunicazione. Lo stesso che ha espresso, in questi stessi giorni, anche la richiesta degli editori radiotelevisivi di altri 250 milioni di euro, con la formula innovativa del <perduto fondo> giusto per non sentirsi accusare dai colleghi di essere dei copioni, a compensazione del crollo degli spot pubblicitari.
Tanto per non farsi mancare niente in questo ambientino a prova di bomba sul fronte etico, il pacco-dono è stato richiesto dal presidente della Confindustria dell'etere (per inciso è associata anche la Rai, già largamente sostenuta dal canone pubblico) che risponde al nome di Franco Siddi. Un signore che nel 2014 ha firmato da segretario della FNSI, il sindacato dei giornalisti, il contratto più favorevole alla controparte degli editori della storia del giornalismo italiano. Per ritrovarsi, neanche un anno dopo, secondo quegli imprevedibili scherzi del destino, esattamente dove invece lo attendeva la storia e la smarrita coerenza: alla presidenza del sodalizio di quelli che fino a poco tempo prima definiva i padroni.
Ci si gira intorno, si impegnano le migliori energie in pensosi e nostalgici conciliaboli sul bel tempo che fu, ma non si ha il coraggio di affrontare una questione centrale: la REPUTAZIONE.
Negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi della tradizione anglosassone, ormai si è capito da tempo che l'autorevolezza di chi scrive è più che mai l'unica calamita in grado di attrarre lettori, quindi investimenti e risorse economiche per tenere in piedi ciò che resta della carta stampata. E per realizzare al meglio la sinergia con l'on line. Non mancano gli esempi di colleghi, famosi almeno nei loro Paesi, che pur non avendo nulla da nascondere, a garanzia della loro trasparenza, rendono comunque noti al pubblico compensi e benefit personali.
Un po’ come, giustamente, pretendiamo da chi assume cariche pubbliche, dal Capo dello Stato all'ultimo dei consiglieri comunali. Nel momento in cui, altrettanto opportunamente, il giornalismo professionale si candida a custode della buona informazione contro le fake news che, recitano anche gli spot tv, ormai dilagano e attentano alla stessa democrazia, in quel preciso momento è necessario darsi una ripulita sostanziale. Non il solito maquillage che affidiamo ai sempre più imbarazzanti corsi di deontologia utili solo a chi è obbligato a dipendere da quella manciata di crediti formativi per non perdere l'appartenenza a ciò che resta della casta.
No, non sono tra quelli che invocano l'abolizione dell'Ordine. Anzi, a maggior ragione adesso che ci sono sempre più protezioni e soldi pubblici a sostenere il settore, credo che l'Ordine assolva a maggior ragione la funzione di presidio di garanzia per tutti. A condizione che diventi strumento di reale trasparenza. Per tutelare i giornalisti, ma anche e soprattutto i lettori. Quei lettori che, per esempio, volessero sapere con qualche legittima pretesa democratica quanti e quali procedimenti disciplinari si sono conclusi con una sentenza per accertate violazioni etiche: dall'asservimento a poteri oscuri se non criminali alla sistematica compromissione dei marchettari in servizio permanente effettivo.
Pensate che a fronte di una platea di quasi 36mila giornalisti attivi su oltre 100mila iscritti all'Ordine (il che significa che due terzi della categoria o sono pensionati o sono disoccupati), i consigli di disciplina hanno concluso a malapena, secondo gli ultimi dati disponibili, risalenti a quasi due anni fa, una trentina di di procedimenti. Con sanzioni esilaranti, almeno come la solennità con cui si invoca la privacy che, per legge, protegge l'identità dei destinatari delle flebili bacchettate, roba da solletico sotto i piedi.
No, non si può più invocare la privacy su questi punti. L'Ordine per primo deve combattere perchè si cambi la legge su questo fronte. Perchè ormai la REPUTAZIONE non è più il velleitarismo di poveri dementi infetti di moralismo da quattro soldi, ma la condizione irrinunciabile per salvare il salvabile di una professione precipitata, e non da oggi, nelle classifiche di credibilità dell'opinione pubblica.
Giuseppe Mascambruno, Livorno maggio 2020