Sarà che vivo questo autoconfino da solo, sarà che non mi rassegno alla trasandatezza e cerco di comportarmi come se tutto fosse come prima, ad esempio tenendo in ordine la casa come se dovessi ricevere, cucinare come se avessi ospiti, vestirmi e cambiarmi come se dovessi uscire eccetera, eccetera. Il problema è che nonostante tutti i tentativi di ricerca di un altrui e altrove è inevitabile la frequentazione stretta con la propria ipseità. Riducendosi i rapporti con gli altri alle multiformi mediazioni tecnologiche, divenute abnormi in questa situazione, mi capita quindi a sera che mi si confondano le molte voci sentite, a telefono, nei messaggi audio, in videochiamata. Che è anche l'unico modo di comunicare con l'esterno, a prescindere dalle rapide scorribande per le spese di prima necessità. Voci separate dai corpi, o comunque trasmesse da apparecchi, schermi e altri gingilli: disinfettate dalla presenza, dall'odore, dal rilievo e dal naturale movimento. Un'invasione del virtuale nel vivere quotidiano come mai prima, che ricopre di una patina di finzione anche i sentimenti più veri. Voci di fuori che sfiorano il dentro, si mescolano e accavallano in una ridda di racconti, pensieri, resoconti che alla fine non so a chi restituire. Un allontanamento siderale anche con chi sai essere fisicamente vicino, ma irraggiungibile. Voci come fragili fili cui aggrapparsi con la massima delicatezza, quasi a cercare di intrecciare in esili trame, che ormai puoi soltanto immaginare, e disegnare i motivi di un esistere sempre più simile non a una morte, ma ad una strascicata e asfittica premorte dove il tempo, che nessuna banca ti presterà o ti restituirà, corre verso quella definitiva: che ti raggiungerà senza skype, whattsapp, telegram, facebook, instagram e tutta la ridda di balocchi tristi.
Fabio Norcini, Firenze 10 aprile 2020
Mi fanno odiare anche Marquez e il suo titolo L'amore ai tempi del colera, ora declinato in coronavirus. A parte un demente che ha già dato tale titolo ad un suo libro (e se non bastasse ci hanno tratto pure una fiction) 'ai tempi del corona virus' è locuzione che dilaga sulla bocca degli stolti, dunque giornalisti in testa: servizi, titoli, cappelli, catenacci occhielli, nonché ricorrenze esagerate nei testi, per qualsiasi argomento. Oltre all'amore, si va dalla spesa all'arte, dal giardinaggio alla masturbazione, dalla cucina alla cura delle ragadi anali, dal rap al massaggio zen e chi più ne ha più ne metta. Sempre A.T.D.C.V. Chissà, crederanno di essere colti o spiritosi o autoironici. A chi si ostina a profferire tale vieta frase fatta vada il mio più fragoroso e fetido rutto: che ai tempi dei maiali era un sospiro...
P.S. In questo “scherzo” me la prendo con i mutamenti lessicali che, abusando delle parole, favoriscono la generale incomprensione e l’impoverimento della lingua, ridotta a mero slogan. Purtroppo la situazione va al di là di qualsiasi scherzo, da prete o profezia gretina: stiamo scolando un quartino di quarantena, per un virus che si chiama come un tipo di tappo. Per molti la quarantena vera è venuta assai prima, lunga quanto una vita, per chi ha scelto i margini e non ha certo bisogno di suggerimenti per distanziarsi: per tale riottosa categoria è stata pratica quotidiana, tanto nei confronti del potere quanto nel commercio con i propri simili. Quanto si chiede in questo “momento impegnativo” è dunque irrisorio, costituisce solo un abuso di quella droga che in fin dei conti è la solitudine: utile allenamento al distacco totale e alla morte che, per la maggioranza, non verrà dall’epidemia ma dalla conseguente inedia.
Fabio Norcini, Firenze 12 marzo 2020