L’irrompere del Coronavirus, clinicamente schedato come Covid 19 perché manifestatosi nello scorso dicembre in Cina e da lì fuoriuscito nel febbraio del presente anno, riporta una paura sconosciuta alle nostre generazioni ma tuttavia latente per il ricordo delle pandemie che nei secoli devastarono nazioni e continenti, ultima delle quali la terrificante spagnola di cent’anni fa che infettò l’intero mondo, dalle isole del Pacifico all’Artico, provocando la morte di quasi cento milioni di persone. Così, sulla disperazione per le stragi della guerra s’innestò l’altra ancor più terrifica per la silenziosità del contagio, risvegliando il terrore delle pandemie del passato: in primis, per mortalità, la peste nera che dal 1347 dilagò in tutta Europa, la cui virulenza, oltre alla documentazione delle croniche, è stata tramandata dal Boccaccio nel suo Decamerone, dove nel Libro primo si ritrovano le paure dei nostri giorni: «E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.»
La peste era giunta dalla Cina attraverso la Siria, la Turchia e la Grecia, sbarcando a Messina da navi genovesi con le stive ripiene di grano russo e di topi neri che di quello erano ghiotti. Risalendo la penisola la peste si propagò all’intera Europa, cosicché dal 1347 al ’53 s’ebbero nell’intero continente oltre settanta milioni di morti. Se i topi furono il veicolo di contagio, la causa dell’infezione era la Xenospylla cheopis, ossia la pulce, a sua volta portatrice del batterio Yersinia pestis che, penetrando nei corpi umani e animali, infettava linfonodi provocando decessi entro pochi giorni. Una mortalità che fortunatamente non riguarda il Corona virus, il quale sebbene altamente contagioso risulta minimamente letale, ma che nonostante ciò ha suscitato allarme e terrore tanto da bloccare attività scolastiche e lavorative, liturgiche e museali, sportive e dello spettacolo, provocando crisi nel turismo e nel commercio, rialzo dello Spread e discesa delle Borse come forse del PIL. Cercando di scherzarci su, se non altro per sdrammatizzare l’ansietà del fenomeno, diremo che sussiste un’analogia, sebbene virtuale, con l’antico veicolo di contagio, ovverosia il topo, visto che il 2020, tradotto nel calendario cinese, corrisponde all’anno dell’animale pestifero. I contagi, partiti ancora una volta dalla Cina nell’imminenza del capodanno “sorcesco”, hanno fatto rifluire in Italia e nel resto del mondo i numerosi cinesi tornati nella madre patria per l’occasione; i quali in un primo momento sono stati temuti, alla stregua degli antichi topi, veicoli d’infezione. S’è poi visto che, a parte una turista cinese giunta fino a Roma e poi guarita, i veri ‘topi’ sono nostri connazionali nei loro traffici da e per la Cina. Per i crescenti contagi, dalla meta di febbraio l’Italia è stata considerata come un lazzaretto da tenere isolato dal resto del mondo, cosicché in molti casi cittadini italiani sono stati bloccati alle varie frontiere, come nemmeno l’Italia era riuscita a fare con i sans papier della capitana Carola. Isolamento come istintiva misura di difesa già adottata al tempo della peste trecentesca da tre uomini e sette donne riparati in una villa fuor dalle mura fiorentine, dove per ingannare il tempo ed esorcizzare l’angoscia della morte narreranno a turno quelle cento novelle argutamente erotiche raccolte dal Boccaccio nel Decamerone, pietra miliare della nostra letteratura ma allora solo una pietra dello scandalo per la lussuria contenuta.
L’isolamento dunque, come nei secoli passati, sembra ancora oggi l’unica speranza di frenare l’epidemia, divenuta ormai globale. Altra salvaguardia sono le norme igieniche, dalle mascherine per il volto al lavaggio delle mani e uso di amuchina; ma al tempo in cui l’igiene era solo un’astrazione, solo alcuni con le difese immunitarie ai massimi splendori riuscivano a farla franca. Come Renzo Tramaglino, che dalla peste del 1630 guarì; o lo fece guarire il Manzoni, che per ragioni editoriali tessé quel lieto fine. Ma i più, brancolando nel buio dei “si dice” privi d’ogni fondamento, tentavano i più demenziali rimedi, come bere le urine per disinfettarsi o praticare salassi fai da te che avevano l’unico conforto d’accorciar la dolorosa fine. S’intensificarono però, col risveglio della mortale epidemia, ricerche di frati speziali che attraverso sostanze aromatarie sperimentarono rimedi meno assurdi. Bottega aromataria significava vendita di aromi, ma di là della semplice radice del lemma corrispondeva in certi speziali un’autentica fucina di saperi. All’avanguardia di tale attività erano i frati domenicani, presenti a Firenze con due conventi: Santa Maria Novella intervineas (ovvero “fra le vigne”) e San Marco. L’attività di Santa Maria Novella iniziò probabilmente nel 1221, data di arrivo dei domenicani, ma la sua funzione pubblica principiò col XVII secolo al risveglio della peste. Nel 1612 il consiglio conventuale aveva affidato la direzione della farmacia allo speziale Simone Marchi, il quale fu maestro del frate Angiolo Marchissi, un converso che passerà alla storia come riformatore della medesima. Sandra Giovannini, nel suo studio su L’Officina profumo-farmaceutica di Santa Maria Novella in Firenze, sette secoli di storia e d’arte, scrive che Marchissi non si limitò a riciclare prodotti dall’antico Ricettario fiorentino, ma promosse esperimenti che lo porranno come autentica personalità di studioso della scienza medica e alchemica del suo tempo. Giovanni del Turco, nel suo libro Nobili segreti, ricorda come il Marchissi durante la peste del 1630-31 avesse sperimentato un “Lattovaro” o “Elettuario”, ovvero una medicina composta di cose “elette”, densa più di uno sciroppo ma comunque molle di origine tedesca e come la sua natura di sperimentatore, che spesso lo portava tentare sconosciute vie alla ricerca di nuovi medicamenti, si fosse spinta fino a dedicarsi a veri e propri studi alchemici, facendo così conoscere i prodotti dell’officina domenicana in «molte città d’Italia, e fuori Italia ancora, da questa di simili medicamenti e di molte preziose quintessenze si provengono». Su richiesta del Marchissi, nel giugno del 1630 la farmacia venne aperta al pubblico attraverso un bel portale in pietra serena disegnato da Matteo Nigetti, aperto sul chiostro grande, dove sull’architrave era scolpito un orciolo farmaceutico ad anse in forma di “cavallucci marini” o “draghiformi”, come quelli che dal secolo precedente i domenicani commissionavano ai vasai di Montelupo. Vasa medicinalia che per la Farmacia di San Marco venivano decorati con effigi santi monaci, mentre quelli per Santa Maria Novella erano dipinti a grottesche, con menadi alate e satiri danzanti, uccellini e insetti fantasiosi, a ricordare forse l’origine del convento sorto “tra le vigne”. Orcioli e piccole brocche, dette ”utelli”, realizzate come opere d’arte, connubio tra le soluzioni alchemiche dei loro contenuti e funzione estetica ritenuta imprescindibile. Prodotti in numero limitato, i pezzi superstiti sono oggi rarità d’antiquariato, ammirati per loro forme e colori dal pubblico dei musei, quanto all’opposto stimata l’efficacia dei loro contenuti. Oggi, scossi dal Coronavirus nelle nostre sicurezze, ci scopriamo perplessi e sconcertati più di coloro che, per ignoranza, alle antiche medicine fiduciosi si affidarono. L’orgoglio scientista del XXI secolo, ferito dall’impossibilità di un antidoto, ci restituisce così alle paure degli avi: a quell’indifeso passato che questi vasi, ingraziositi dall’arte, simbolicamente rappresentano.
Marco Moretti, Firenze 31 marzo 2020