“We can't return to normal, because the normal that we had was precisely the problem”. Non so chi l'abbia scritto, chi stia dietro a questo 'Extinction rebellion' che lo ha pubblicato su FB, ma condivido totalmente l'assioma; e quando sento crescere il prurito per l'imminente attacco d'orticaria, quello che sistematicamente mi assale ogni volta che leggo l'ennesimo, insulso, stupidissimo: 'Andrà tutto bene!' (con o senza arcobaleno a corredo) è proprio a questo che penso: al nodo fondamentale del problema, alla domanda che attende una risposta dirimente e soprattutto consapevole da parte dell'uomo 'occidentale': riprendiamo come prima o cerchiamo (almeno) di correggere qualcosa di sostanziale nel modello di sviluppo. E il corsivo, sia chiaro a tutti, a cominciare da Nina Berberova, il corsivo è mio e guai a chi me lo tocca!
“Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert'ora, come per lo scatto d'un interruttore, smettevano la produzione e, via! Si buttavano tutti a consumare.” Alle sei e due minuti di uno qualsiasi di questi giorni, tutti ugualmente produttivi e almeno altrettanto consuntivi, un signore di mezz'età si presentò al pronto soccorso dell'ospedale cittadino e disse all'uomo seduto dentro la guardiola: “Ho la febbre alta, e una tosse che non mi lascia respirare”. L'infermiere lo guardò distrattamente e senza interrompere il solitario online gli chiese la tessera sanitaria, poi disse: “Si accomodi pure in sala d'attesa insieme a tutti altri; qualcuno la chiamerà per farle il triage. Come vede ci sarà da aspettare ...” Cominciò così, e quello che sembrava un gioco semplice e divertente (non il solitario, intendo, la faccenda del produrre per consumare subito il prodotto e ricominciare a produrre per continuare a consumare), dall'oggi al domani parve una perdita incolmabile, un lutto non elaborabile. La gente cercava di consolarsi a vicenda: “Ci vorrà un po' di pazienza, ma poi tutto tornerà come prima”. Fu allora che il più geniale fra loro, probabilmente quello che in sommo grado aveva a cuore la felicità dei suoi simili, prese da un cassetto del trumeau un foglio bianco, la scatola delle matite colorate, chiamò il figlio undicenne e gli disse: “Disegna un bell'arcobaleno, poi scrivi sotto: 'Andrà tutto bene!' E mi raccomando, non dimenticare il punto esclamativo!” Il bambino si sedette, inclinò la testa di lato come faceva sempre quando si applicava (e mai quando guardava la televisione), tirò fuori un bel pezzetto di lingua polposa, e in pochi minuti completò il suo lavoro. Il padre, che in piedi dietro la sedia non aveva mai smesso di osservare i progressi dell'operazione, gli carezzò la testa e, mentre impugnava lo smartphone per fotografare il disegno, soggiunse che era stato bravo. Poi postò l'immagine su Facebook; senza didascalia, perché l'impatto ne risultasse maggiore. E mentre aspettava i primi commenti, la gragnola dei 'mi piace' e l'orgia delle condivisioni, inorgogliva dentro di sé: “Ho avuto un'idea davvero eccezionale. Scommetto che in quattro e quattr'otto diventerà virale”. Non si sbagliava.
'Tis the times' plague, when madmen lead the blind. (King Lear, IV, 1)
A conforto di quanto già detto; la Storia non è progressiva ma solo ricorsiva. Si concede varianti, aggiornamenti marginali, ma la sostanza resta costante e immutabile: un'oligarchia, intercambiabile per contenuti ma non fungibile per ruolo assegnato, governa una massa di ciechi, ovvero di sudditi variamente recalcitranti ma sostanzialmente incapaci di vedere il proprio Destino. “Il resto è talkshow”, tanto per parodiare il profeta di Stratford, sul basso continuo della supposta modernità.
Piero Puccioni, Firenze marzo-aprile 2020
George Floyd è l'ennesimo nero che paga con la vita le proteste che ad un bianco, almeno negli USA, costano al massimo un rabbuffo. Stamani mi arriva una missiva elettronica dal CEO di ISSUU; sto per cestinarla d'istinto, poi decido di leggerla. Per fortuna, perché ci ritrovo un'eco inattesa dei miei pensieri recenti sulla definizione di normalità e su cosa significhi tornarci. Joe Hyrkin scrive: “We need this to be the commitment of our lifetime, rather than just a week or two where people protested, tweeted and blogged. This has to be a sustained movement that creates the new normal built on a foundation of seeing and appreciating each other’s value.”
Sostituire giorno dopo giorno alla retorica televisiva quella ancora più potente e insidiosa dei social, dove è così facile riversare la propria indignazione ed esibire i buoni sentimenti (magari la generosità di un'offerta effimera) non è una soluzione; solo un rimedio ipocrita alla comodità dell'egoismo. Bisogna costruire una nuova normalità, che passi da una ridefinizione del concetto di sviluppo e dallo smascheramento di quello schiavismo che è storicamente tramontato solo nella sua forma classica, appariscente, ma che continua a rappresentare, in vesti cangianti e multicolori, la base e la sostanza del nostro benessere, di quella “normalità” che siamo ansiosi di riconquistare, appena la fastidiosa parentesi Covid lo permetta.
Mi tornano in mente le parole di Noventa, già consegnate al diario, e ripenso al fascista che prima di tutto dobbiamo smascherare ed uccidere dentro di noi, prima di assegnarci il titolo di partigiani. Della “Brigata Facebook”, magari …
Piero Puccioni, Firenze 4 giugno 2020