Oggi mia madre avrebbe compiuto 78 anni. È il primo dei suoi compleanni in cui non c’è più nulla da festeggiare, in cui una nascita è sprofondata in una morte, in cui tutto appare come la fiamma soffiata via dalla sua candela.
Oggi sono andato a fare la spesa. Era la prima volta che uscivo dopo giorni. Sei stato, fino ad oggi, chiuso in casa a fare le tue cose, e hai la fortuna di stare in una casa sul limitare di un bosco, di assimilare il respiro degli alberi, il loro colore, il canto degli uccelli, lo spicchio di mare giù in fondo, la neve all'altro capo della valle. Fai le tue cose come sempre, e non percepisci alcun cambiamento sensibile nella tua forma di vita. Poi, ti guardi intorno, mentre scendi in auto verso la città, con la curiosità di sentire sulla pelle questo stato d’eccezione.
E sulla pelle ti torna quel oltrevita che hai sentito in quelle settimane in cui sostavi nel corridoio della terapia intensiva, dove ti confrontavi con la possibilità reale, sempre più reale, di tua madre che stava morendo, delle possibilità che restasse in vita, dove la vita e la morte si facevano tangibili, ti sembrava di respirarle, le respiravi, sentivi tutta l‘intensità che è la vitamorte, quella che è un solo soffio di parola, che è una sola parola che dice il soffio che entra e esce dalla tua cavità e si perde nella cavità del tutto, e rinasce e si perde di nuovo: in questa tensione inestinguibile, in questo sibilo teso come un cavo di ferro risuonante tirato allo spasimo sopra un abisso, così ti pareva di stare. In un’intensità sovrumana, o quantomeno stra-ordinaria, che quasi c’era da esserne grati, di sentire quell’intensità, seppure sul portone della legge della morte, implorando che tu entrassi, e lei se ne uscisse. In quell’intensità vedevi le cose da un’altezza nuova, un privilegio quello di spostare lo sguardo, di decentrarsi e percepire tutto ciò che accade in modi nuovi. L’evento del morire di mia madre: fu questo spostamento, e questo paradossale privilegio. Era anche questo che intendeva Nietzsche col suo Dire sì alla vita, dire sì alla sofferenza: assentire allo spostamento, alla dislocazione che un evento tragico ti offre, anche con tutta la sua schiacciante e debordante sofferenza che può avere.
Oggi sono uscito, ho visto la città rarefatta, sono andato in fila all’entrata del supermercato, a un metro di distanza dagli altri, ho fatto la spesa. Ho incontrato un vecchio amico, ci salutiamo dalla distanza di un metro, e poi mi chiede di mio padre, come sta. Poi torno verso casa, e sento che la sospensione che stiamo vivendo è un privilegio smisurato. Che non è una sospensione, ma una possibilità di vita. La possibilità di riconfigurare uno sguardo, di riparametrare le cose, la forma di vita. Non è una sospensione, ma un’intensità nuova, che dobbiamo cogliere, di cui essere all’altezza. Sentire la pienezza che c’è in questo evento che ci sposta, ecco tutto quel che dobbiamo fare adesso. Il resto, verrà da sé.
Quando cresce il pericolo aumenta pure tutto ciò che salva, scriveva un poeta, che ho cantato tante volte. Essere all’altezza di questo pericolo, per salvarsi: per vivere la vita, per ricrearla, per farla nuova.
Marco Rovelli, Massa 12 marzo 2020