Tra Arcadia e discarica

Claudio Sacchi è uno dei maestri “segreti” e “palesi” dell’arte contemporanea. Defilato e controcorrente rispetto alle mode e le tendenze, lontano da parrocchie critiche e dalle lobby di mercato, fonda il suo lavoro su un solido mestiere che sostiene l’ispirazione allo stato puro, che era caratteristica tipica degli antichi pittori. Solo che la sua vocazione all’immagine, intesa nel triplice senso che comprende anche attitudine e professione, non lo rimanda ad un passatismo imbalsamato, ma lo proietta molto più avanti delle sedicenti avanguardie. Esponente di punta dell’arte sacra contemporanea, con cicli di affreschi sparsi in storiche chiese, le sue tele figurano nei più prestigiosi musei e collezioni del mondo. L’abbiamo raggiunto telefonicamente nel suo studio in questo periodo di quarantena.

Vorrei iniziare questa conversazione, visto che vivi del tuo lavoro pittorico, chiedendoti cosa rappresenta per te la tanto vituperata committenza


La risposta è contenuta nella storia dell’arte: ad essa dobbiamo i più grandi capolavori del passato. Solo in epoche a noi assai vicine è divenuta un termine di deminutio del lavoro artistico, io invece ritengo che costituisca un suo potenziamento; prendiamo il caso dei ritratti: è ovvio che esistono dei requisiti fondamentali, a partire dalla somiglianza, ma poi si instaura una dialettica con il soggetto sull’ambientazione, la positura, e via dicendo. E qui si libra la fantasia e la complicità con il committente, che è sempre un elemento stimolante. Quindi l’apparente costrizione dovuta al rispetto dei desideri di chi in definitiva ti paga, si trasforma in libertà estrema, ti spinge a soluzioni sempre nuove. Faccio sempre l’esempio degli ingegneri che devono aprire il varco ad una galleria: per rendere più esplosiva la carica la “costringono”, la imprigionano sul retro con pietre o altro, in modo che l’effetto sia più dirompente. Discorso più complesso, invece, quando si passa dal ritratto al ciclo pittorico in affreschi. Qui, ovviamente, le esigenze si moltiplicano e… occorre molta dinamite… (ride). Pensa che negli ultimi tre anni ho affrescato 500 metri quadri di superficie e oltre duecento personaggi. La pressione è enorme e lì ti senti davvero solo. Ti rendi conto che costi: solo le impalcature gravano sui 300 euro al giorno e quindi devi unire alla qualità anche una velocità di esecuzione notevole.

Quello che è impressionante è che riesci a unire a questa gran mole di lavoro “su ordinazione” anche una altrettanto cospicua quantità di quadri pro domo tua, nel tuo sito le chiami “composizioni”, dove predomina un contrasto lancinante tra bellezza e degrado, quasi un’arcadia invasa dalle scorie della contemporaneità, con le sue discariche e rottami: riesci ad inserire uno zaino non biodegradabile nei prossimi cinque secoli, in un paesaggio che pare senza tempo…

Hai colto esattamente il senso del mio lavoro. Solo che quel paesaggio cui ti riferisci è “su commissione”. Anche qui si vede come la demarcazione del lavoro si fa labile. Certe mie opere che sembrano eseguite su misura, ad esempio alcune copertine di libri come quello della Nobel Elfriede Jelinek, non lo sono affatto, sono scelte da vecchi lavori. Tornando alla produzione “in proprio” mi piace mettere a confronta la incolume poesia della natura, siano paesaggi, esseri umani, o anche rovine e vestigia, con il lascito della società dei consumi di oggi, formata da rifiuti, spazzatura in sacchi o sparsa, insomma materiale da discarica. Sarebbe molto più facile rappresentare i soli aspetti revulsivi e negativi: anche in letteratura è più facile descrivere l’inferno che il paradiso. Invece cerco di sottolineare l’incorruttibile bello; che è pericoloso: cadere nel kitsch, è un attimo. Come sai la mia idea era una specie di “Et in Arcadia ego”, che poi ho tradotto in “Sulle tracce dell’Eden”. Nonostante tutto credo che la scintilla di ciò che i greci classici intendevano con il termine καλοκαγαθία sopravviva in ogni umano. È qualcosa di prelogico che spetta proprio all’arte far riconoscere. Con due mezzi essenziali: il segno, che non esiste in natura e deriva da un processo mentale, e la vibrazione del colore.

Che tu, tra l’altro, ti produci da solo, se non ricordo male

Esatto. Trovo che macinare e pestare i pigmenti, fare insomma il lavoro di “cucina”, sia un ottimo esercizio preparatorio alla creazione, per sgombrare dalle tensioni dell’immanente…

A proposito di quest’ultime, come vivi questo periodo di forzato isolamento, cosa implica a livello di lavoro, cosa stai dipingendo in quarantena?

Sono rimasto con un lavoro finito, magari da ritoccare, ma il committente sta in un'altra regione… Poi, e questa è buffa, avevo fissato di eseguire un ritratto ad una persona che sta a Roma, quando è scoppiata la pandemia; per fortuna mia moglie ha la madre a Roma e quindi può andarci con la famigerata autodichiarazione: il prossimo viaggio ne approfitterà per andare munita di tablet a visitare il cliente in modo da iniziare il ritratto con skype e quindi filmarlo per poterlo continuare. Per quanto riguardo ciò che dipingo adesso mi diverto con dei paesaggi “a memoria”, che io definisco immagini di stati d’animo e che recano lo stigma del sogno e della speranza. Quello che ci fa andare avanti e non essere ancora vecchi del tutto, anche te, pallino. Nonostante si giochi con l’humour noir o a fare i cinici, rimaniamo dei ragazzi. (testo raccolto da Fabio Norcini)

Claudio Sacchi, Sansepolcro, 12 maggio 2020